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06.03.2015  |  Volontari

L’importanza del primo incontro, dalla teoria alla pratica

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Valentino prosegue il percorso sul suo “assistere col sorriso” e ci racconta il suo modo di avvicinarsi in punta di piedi, di fare suo questo “motto” di Vidas, con sensibilità ed autoironia. Prova a raccontarci la sua ilarità, come si esprime, senza forzature, attingendo alle corde del proprio essere. Fin dal primo incontro.

Quando si va a domicilio come autisti per accompagnare in macchina i pazienti in struttura per la visita e quando ci si reca al piano superiore in hospice per i ricoverati, quando si incontrano per la prima volta gli assistiti, penso che la cosa migliore sia quella di essere se stessi, non avere timore o imbarazzo, provare invece la curiosità di iniziare una nuova conoscenza, pensare che ci arricchirà.

Il primo incontro è quello più importante, a volte potrà essere anche l’unico, dobbiamo cercare di capire coloro che abbiamo di fronte, il grado di cultura, lo stato d’animo, di salute, il modo di fare , di parlare e i loro interessi, le loro preoccupazioni, se siano ironici o scontrosi, cosa ci stiano trasmettendo con gesti, sguardi, modi di fare, essere sensibili alle loro reazioni, anche le più piccole, per ciò che diciamo.

Valentino durante il long dayÈ un avvicinarsi in punta di piedi, avanzando piano piano, proprio per vedere fino a che punto ci possiamo spingere.

Conoscere ma senza incalzare con domande o con l’ansia di voler scoprire qualche cosa ad ogni costo, tutto verrà da sé in modo spontaneo e questo dipende molto da noi e da coloro che assistiamo, dall’equilibrio che sappiamo costantemente tenere, un gioco difficile, ma indispensabile per relazionarci con le persone fragili senza appesantire il dialogo.

È un rapporto basato sull’improvvisazione del momento, niente di preparato, un dialogo fatto rispettando equilibri relazionali, alla ricerca della giusta dimensione, dove l’unico elemento indispensabile è la sensibilità!

Questo vale per ogni tipo di relazione, ma per assistere con il sorriso occorre andare oltre, cercare il lato “divertente” di coloro che abbiamo di fronte. Ridere innanzi tutto delle nostre debolezze, delle nostre fragilità, non far sfoggio della nostra cultura e conoscenza, perché tale comportamento può schiacciare coloro che stiamo iniziando a conoscere, e tenderanno a chiudersi.

Dobbiamo ascoltare e mostrare interesse per le conoscenze che possono trasmetterci, anche per le più “banali”, non per buonismo, ma perché, per la condizione che stanno vivendo, i malati terminali raccontano e sentono in modo differente, possiedono certamente una sensibilità e un’emotività molto particolare, direi speciale.

Quindi raccontarci, rendendoci noi stessi “risibili” per situazioni da noi vissute, aiuta molto a far aprire gli assistiti e renderli tranquilli, distesi.

Condividere anche le proprie esperienze personali tristi – perché no? – sempre senza angosciarli, dà loro la possibilità di confidarsi.

Insomma infondere in loro fiducia può permettere ai pazienti di rivelare da subito fatti della loro vita mai confessati a nessuno. Già da questo si capisce molto degli assistiti.

La cosa più sbagliata è quella di incontrare chi assistiamo pensando di dover per forza favorire l’ilarità: se non si ha una predisposizione ad accogliere con il sorriso, l’abbraccio e il bacio, non si deve forzare la relazione. Si rischia così di ottenere l’effetto contrario, gelare la relazione da subito. Sicuramente ogni volontario ha i suoi tempi e le sue predisposizioni, intimamente connessi al proprio modo di essere.

Nella realtà io come mi comporto? Fin dal primo sguardo capisco se posso abbracciare il paziente o se farlo in un secondo tempo. Personalmente mi vien naturale un approccio molto fisico, uso molto lo sguardo, il sorriso e l’abbraccio; con le pazienti il bacio è la normalità! Ma mi succede spesso anche recandomi al piano superiore in hospice di abbracciare una persona ricoverata senza mai averla vista prima. Di solito accade quando incrocio il suo sguardo e lei mi sorride! Le OSS a volte mi dicono: quando l’hai conosciuta? Risposta: è la prima volta che la vedo!

L’uso dei dialetti mi aiuta molto a socializzare subito, fanno simpatia, si ride molto per i modi di dire e i pazienti si raccontano e rivivono momenti gioiosi passati, riemergono tanti bei ricordi.

Massima spontaneità quindi, perché penso che ci si debba comportare come siamo davvero, con la stessa naturalezza, non recitando. Anche cercare infatti di essere a tutti i costi troppo gentili può risultare negativo, quando non è un comportamento che teniamo normalmente con tutti. Le persone fragili percepiscono immediatamente il differente timbro di voce di chi si rivolge loro con troppa delicatezza e dolcezza.

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