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18.02.2013  |  Cultura

La solitudine del morente

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Le condizioni umane della nascita e della morte sono due estremi che hanno in comune la fragilità e la dipendenza dagli altri e che richiedono accoglienza e cura. Entrambi necessitano di una famiglia e di una casa dove vivere l’evento.

Il legame familiare è caratterizzato dall’accoglienza e dall’umanizzazione dove si vive e si sperimenta la donazione e la fiducia, che rimarrà un ricordo indelebile per tutta la durata della propria esistenza e che si riuattualizzerà quando la propria autonomia diminuirà e aumenterà la necessità di dipendere dalle cure altrui.

L’ammalato grave, così come un bambino piccolo, ha bisogno di essere riconosciuto per la sua unicità, di possedere la propria identità con un nome proprio, con le sue radici, di un’alleanza simbolica con il proprio nucleo famigliare, di una casa. Da qui la necessità di Cure palliative personalizzate che vengano confezionate su misura come degli abiti – dal latino pallium che significa Mantello – e che si modificano nel tempo in base ai cambiamenti fisici, psichici e del proprio contesto famigliare e sociale.

Vorrei partire dal racconto di una significativa assistenza per riflettere insieme a voi. Lucia è una signora di 60 anni, divorziata da circa 10 anni, con due figli ormai grandi che abitano con lei: un figlio maschio di 30 anni, che non accetta la situazione di malattia della madre e reagisce fuggendo dalla realtà, e una figlia di 25 anni, che sembra esserle molto più vicina e la accudisce (ne è, come noi la definiamo, la care giver). La signora è donna sensibile d’animo e ha una particolare situazione psicologica: se da un lato, pur avendone la possibilità, rifiuta il passaggio alla posizione seduta in poltrona per paura di illudersi, dall’altro ha chiesto di essere trasferita dalla camera matrimoniale troppo fredda, che le incuteva paura e dove ha sognato la morte, alla camera della figlia più calda e accogliente, arredata con piante e animali. Come molti pazienti, da un lato si prepara a morire; dall’altro riorganizza la propria vita. Il divorzio ha rappresentato un momento sicuramente significativo della sua vita e ne parla ancora adesso esprimendo grande dolore. Forse non a caso la malattia è comparsa qualche tempo dopo questo evento.

Dai racconti traspare sempre una doppia lettura, una sul piano del ricordo, dove si evidenzia la capacità della paziente di affrontare e reagire agli eventi della vita in modo attivo e propositivo, l’altra sul piano dell’adattamento alla fine della vita, mantenendo sempre aperta la porta della speranza. In questo percorso c’è una sorta di oscillazione, che va dalla narrazione del ricordo al dialogo sul presente, al fine di ricompattare e risignificare la propria vita, passata e presente, per cominciare ad immaginare la separazione finale attraverso un percorso fatto di disagi e dipendenza dagli altri, ma anche di una sua parte attiva che le permette di “rimettere in piedi sé stessa” nel corso del suo destino di vita. Nella nostra società è aumentata la distanza culturale tra i vivi e i morti – abolizione del rito del lutto – e quella tra i viventi e i morenti – delega alle strutture sanitarie. La tecnologia, la scientificità, l’igienicità hanno cercato di dare un volto più civile alla morte per addomesticarne la paura, poiché nella nostra cultura la morte rappresenta il limite finale, mentre per altre culture essa è solo un passaggio in un altro tipo di vita.

Ma in tutto questo vi è una grande senso di solitudine che vive il malato e la sua famiglia. Il malato si sente solo, distaccato e lontano dai valori sociali, ma soprattutto si sente un peso per i propri cari e pertanto si sente anche in colpa di essere malato, le donne ancora di più. La solitudine è anche all’interno del nucleo famigliare dove il malato stesso non si sente di esprimersi liberamente perché sente ancora il pudore dettato dal proprio ruolo famigliare, e anche il timore di far soffrire l’altro per la condivisione del suo dolore e della sua paura. Spesso, inoltre, vi è anche un senso di solitudine verso se stessi, colpevoli di aver rinunciato in passato alla ricerca della propria autenticità per motivi vari o necessità altrui.

Vidas, che lavora nella medicina di Fine Vita – quasi un ossimoro se ci pensate -, operando in un territorio di frontiera tra la vita e la morte, ha cercato di rispondere a questa solitudine estrema organizzando una rete di servizi per restituire dignità individuale e sociale al malato terminale, per farlo sentire vivo fino all’ultimo respiro. Così come vuole anche la nostra Lucia.

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