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11.06.2012  |  Cultura

Riflessioni sul tatto, il più umile tra i cinque sensi

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Ultimo, ma non l’ultimo dei cinque sensi. Silvia Vegetti Finzi, psicologa clinica e scrittrice, membro del Comitato Scientifico Vidas, conferma nelle sue splendide riflessioni l’importanza di un riscatto del tatto e la piena legittimità di questo senso di sedersi al tavolo della meravigliosa macchina umana con gli altri quattro fratelli. Nel nostro mondo vista e udito abitano i piani nobili, odorato e gusto sono confinati in quelli inferiori mentre, relegato nello scantinato, troviamo il quinto e ultimo senso, il tatto appunto. Ma, come vedremo, proprio il fatto di appartenere alla dimensione dell’infimo, lo rende suscettibile di un processo di riqualificazione che lo innalza alle vette del sublime. D’altronde noi di VIDAS sappiamo bene quanto importante sia il ricorso al tatto nella terapia del dolore e quanto mani protese che sfiorano altre mani sofferenti siano fondamentali nei percorsi di fine vita.

Il tatto nella storia, nella filosofia e nella pedagogia

«Tocca, senti anche tu»: Silvia ci ricorda come la semplice frase crei complicità tra due esseri umani e sia fonte d’intensa intimità. Mezzo secolo fa fu un papa, Giovanni XXIII, a elevare il tatto, per mezzo del più delicato dei suoi canali d’espressione, a celebrità mondiale, quando invitò i fedeli a ritornare nelle proprie case e a dare una carezza ai bimbi in suo nome.

Nelle prossime righe, Silvia Vegetti Finzi ci accompagna nella visitazione del tatto nella filosofia, nella storia e nella pedagogia con la sua scrittura che sa essere insieme densa e lieve.

[…] Come scrive Lucrezio: «Il tatto è il senso del corpo intero». Però, di fatto, utilizziamo, per toccare intenzionalmente gli oggetti, solo una parte minima di questa superficie: i polpastrelli.

[…] Tuttavia, anche quando viene impegnato intenzionalmente, il tatto non solo riceve dagli oggetti poche informazioni, ma possiede scarse capacità di elaborarle, di tradurle in parole, di condividerle.

Mentre gli psicologi cognitivisti hanno individuato vari tipi d’intelligenza a seconda del senso prevalente, per cui vi è una “intelligenza visiva “, “verbale”, “auditiva”, non si cita mai l’intelligenza “tattile”, né si ricordano artisti particolarmente dotati in tal senso.

Sappiamo però che Michelangelo aveva, con il marmo che andava modellando, un rapporto corporeo, tattile; era solito accarezzare le superfici lisce o scabre delle statue come fossero l’epidermide o le vesti di una persona viva cui mancava solo la parola, come al Mosè di S. Pietro in Vincoli.

Ancora oggi, seguendo la pratica plurisecolare dei vasai, i ceramisti sono soliti modellare un pezzo di creta posto su un tornio girevole, plasmandone, accarezzandone, la morbida materia con i palmi delle mani per cui il manufatto (mai termine è stato più preciso) sembra prender corpo dal corpo di chi lo produce.

È significativo in proposito che in uno dei più antichi racconti delle origini, quello della babilonese dea Mami, la madre di tutti gli déi crei Lullu, il primo uomo, mescolando all’argilla la carne e il sangue dell’intelligente dio Pee e, dopo averla lavorata con le mani, la consegni ai grandi déi dicendo: «l’opera che mi avete comandata io l’ho portata a compimento». Mentre il Dio bibblico Yahvé crea l’uomo attraverso il Verbo, in modo distante e immateriale, dunque, quella remota divinità femminile lo mette al mondo impastando la terra concretamente, con le proprie mani, così come si faceva, e altrove ogni giorno si fa, col pane. Eppure, nonostante la straordinaria ampiezza delle aree cerebrali riservate alla mano e alla bocca, il tatto rimane per noi un senso poco esplorato e scarsamente utilizzato, una potenzialità che non evolve con l’età e che poco si perfeziona con la cultura.

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